La libertà di movimento dei migranti in Europa nei primi mesi del 2016 ha subito forti limitazioni. Già dal settembre 2015 l'Ungheria aveva eretto una recinzione ai confini con la Serbia. Il 25 febbraio 2016 il governo della Fyrom, insieme a Slovenia, Austria, Serbia e Croazia, decise di adottare una politica di strettissimo controllo dei flussi con lo scopo di limitare l'ingresso nei Paesi della ex-Jugoslavia e garantendo inizialmente il passaggio a circa 500 persone al giorno, per poi arrivare a poche decine.
Negli ultimi giorni del febbraio 2016 in migliaia (soprattutto siriani, iracheni, afghani molti dei quali di etnia Hazara) sono passati dal campo provvisorio allestito in una stazione di servizio di Polykastro, a venti chilometri dal confine, a quello nei pressi del villaggio di Idomeni: il piccolo agglomerato di case contadine da sempre al centro dei mutamenti storici dei Balcani e già protagonista nella guerra greca di indipendenza dall'Impero Ottomano è ora centrale per le strategie politiche tra i paesi balcanici ed europei nella gestione del flusso migratorio.
Inizialmente predisposto ed organizzato per accogliere temporaneamente 1500 persone al giorno a ridosso del muro di rete e filo spinato fino a poco tempo prima inestistente, il campo profughi di Idomeni si estende sui terreni agricoli, delimitato dalle tende e dai ripari di fortuna che superano per necessità l'organizzazione prevista dalle ong.
L'effetto imbuto creato dalla progressiva chiusura del confine, la sofferenza dei migranti bloccati in un villaggio di frontiera, la gestione militare di un'emergenza facilmente evitabile ha convinto l'Europa a sostenere economicamente la Fyrom e aperto la strada agli accordi del 18 marzo 2016 con la Turchia.
Quando il 24 maggio 2016 la polizia greca iniziava lo sgombero e il trasferimento dei migranti da Idomeni ad altri centri di accoglienza il campo ospitava circa 15000 persone; circa il 70% erano donne e minori. Dal 2015 la rotta balcanica ha visto passare circa 1,5 milioni di rifugiati diretti verso il nord Europa, quasi 50.000 sono ancora oggi bloccati in Grecia in attesa di un destino migliore.
© Pierfrancesco Lafratta