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Rosarno, Sekinè è morto
Il nome antico di una città MagnoGreca - ÎœÎδμα - (Medma, in greco città di frontiera) e la Madonna nera di Patmos, ritrovata nel 1400 su una spiaggia nei pressi del porto pare abbiano segnato il destino di Rosarno e dei suoi 15mila abitanti; tracce che raccontano storie di confine e di meticciato.
Anche perchè, come dicono in paese, rosarnesi DOC non ce ne sono. Rosarno sin dalla fine del 1800 la città è stata meta per migranti provenienti dalla Calabria e da altre regioni spinti qui dalle opportunità di lavoro in campagna anche perchè facilmente raggiungibile con una delle prime tratte ferroviarie che raccordava la Calabria.
Un mercato florido che valse al paese il soprannome di "Americhicchia"; per migliaia di braccianti questa terra era davvero una piccola America.
Negli anni novanta del secolo scorso, con l'apertura al mercato globale e la mancanza di adeguati sistemi di protezione delle economie locali, il destino di molte aziende di produzione ed esportazione delle arance è cambiato radicalmente. Fino al 1985 la manodopera della raccolta della frutta era gestita in ambito familiare, si assoldavano conoscenti o, al massimo, da qualche operaio. Le prime comunità di braccianti stagionali, in prevalenza maghrebini, seguiti dai migranti provenienti dall'Europa dell'Est si sono viste arrivare in puntuale concomitanza con scandali e truffe ai danni della UE da parte di imprenditori locali prima, e con gli anticipi della crisi economica poi, agli albori del 2000. In questo scenario l'emigrazione della forza lavoro locale (circa 2000 rosarnesi emigrati negli ultimi 5 anni) lascia progressivamente il posto agli stranieri sia nel lavoro nei campi che nel ripopolamento di alcuni quartieri: il rione Ospizio è abitato in prevalenza da cittadini sia comunitari, soprattutto bulgari e rumeni, che extra-comunitari, maghrebini e sub-sahariani. Il tasso di disoccupazione di Rosarno sfiora il 31%, la media della provincia di Reggio Calabria è del 20,5%, secondo i dati ISTAT.
Nella primavera del 2016, data la scarsa produzione e prezzi di mercato molto bassi, le possibilità di impiego sono calate drasticamente e, nelle tendopoli tra San Ferdinando e Rosarno costruite dal ministero dell'interno e dalla protezione civile nel 2014, si contano quasi 400 presenze, quasi tutti sono senza lavoro e costituiscono una vera e propria comunità auto-organizzata.
All'assenza di servizi minimi ci si oppone con l'ingegno; nella tendopoli infatti sono presenti tende adibite ad attività commerciali: il biciclettaio, il venditore di acqua calda, dei bar/market, una moschea, una chiesa, una sala cinema, un barbiere, perfino un'improvvisata officina per auto.
L'atmosfera a due giorni dopo l'omicidio di Sekiné Traoré è surreale e si alternano gesti di vita ordinaria, dalle abluzioni fuori la moschea propedeutiche alla preghiera alle attività di manutenzione delle baracche e musica ad alto volume, da momenti di allegria a episodi di evidente tensione; questi ultimi sono anche il prevedibile effetto dello stress e dello sgomento di chi ha visto, ancora una volta, morire un compagno ed amico sotto i propri occhi, ancora una volta di una morte insensata.
L'8 giugno dopo un banale litigio con due ragazzi del Burkina Faso e del Gambia per delle sigarette Sekinè Traoré viene ucciso con un colpo di pistola da uno dei sette carabinieri giunti sul posto perchè chiamati dal gestore del negozio.
Sekinè Traoré era un ragazzo maliano di 27 anni, uno dei tanti braccianti stagionali che lavorano nelle campagne calabresi per 25 euro al giorno, circa la metà di quello che prevede il contratto nazionale di categoria, non aveva disturbi mentali come dicono, e non beveva.
Le ricostruzioni dei fatti, quella presentata dalla procura e quella raccontata da alcuni testimoni presenti, divergono: per i primi il carabiniere ha reagito all'aggressione del maliano armato di coltello da cucina che lo avrebbe ferito al volto, per alcuni dei presenti invece Sekinè era già a terra quando è stato colpito, era armato di un coltellino e non di un coltello per il pane e che il carabiniere ferito non è lo stesso che ha poi sparato. Chissà se e quando le indagini avviate dalla procura chiariranno l'accaduto ma in questa condizione di disperazione e totale abbandono l'incidente era al quanto prevedibile e la tragedia in agguato.
Appena qualche settimana prima, per pura fortuna dei ragazzi non sono saltati per lo scoppio di una bombola del gas che ha distrutto la loro tenda. Nei giorni del sesto anniversario della rivolta, a gennaio, sono stati presi di mira ed aggrediti gli africani che rientravano dal lavoro a piedi ed in bicicletta.
Quel che è certo è che, dopo la rivolta del 2010, nella tendopoli di San Ferdinando tutto è tornato come prima, nessuno ha fatto alcunché per evitare altro degrado e sarà per questo che la notizia di un africano freddato da un carabiniere non soprende nessuno.
© Pierfrancesco Lafratta
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